Archivio mensile:Maggio 2015

Icaro deve cadere_Intervista a Elisa Muliere

questo articolo è apparso su fqmagazine.it, il 27.05.2015

Elisa Muliere, pittrice tortonese, classe 1981, si confronta con un personaggio che entra prepotente nell’immaginario collettivo: parafrasi mitologica del desiderio umano, Icaro è l’epigono della tensione verso una bellezza irraggiungibile e diviene, nella visione della Muliere, protagonista di un duplice diktat artistico.

All’ombra del mercato editoriale mainstream nascono e vivono piccole realtà indipendenti, spesso gestite da due o tre persone capaci di esaudire i desideri dei lettori più esigenti. La GRRRZ Comic Art Books, dei genovesi Andrea Benei e Silvana Ghersetti è una di queste. Lo ha dimostrato la scorsa estate quando alle due collane esplicitamente dedicate al fumetto ha affiancato tre collane atipiche di libri illustrati: Méduse, M.lle Rivière, e la collana L’invention collective dedicata solo a libri d’arte di autrici donne. A inaugurare quest’ultima collana al femminile è stata Elisa Muliere, pittrice tortonese, classe 1981, che si confronta con un libro- mostra, Icaro deve cadere. Personaggio che entra prepotente nell’immaginario collettivo, parafrasi mitologica del desiderio umano, Icaro è l’epigono della tensione verso una bellezza irraggiungibile e diviene, nella visione della Muliere, protagonista di un duplice diktat artistico: un libro in edizione limitata con copertina personalizzata dall’autrice e un’esposizione site specific dei bozzetti originali che dopo la galleria Adiacenze di Bologna, ha toccato anche Torino , Parma, e Genova dove inaugura il prossimo 28 maggio alla galleria Il Vicolo. L’abbiamo raggiunta per parlare del progetto.

Il volo di Icaro è parafrasi eccellente del desiderio, che solo ad un certo punto associamo direttamente a quello amoroso, ma ciò nonostante il tuo lavoro rimane aperto. La caduta quindi come sconfitta o come abbandono cosciente del sé?
Tra le due, la mia caduta somiglia sicuramente di più ad una presa di coscienza del sé che ad una sconfitta. L’ho intesa come azione necessaria che definisce l’essere in vita. Si nasce, si vive, si cade. In questo atto, sono racchiuse le esperienze fondamentali del sentire umano. Si parte con un accenno al nostro essere mortali, finiti. Si prosegue con il trattare il tempo che scorre, poi appunto – l’amore, la memoria e le proprie radici, la paura, il desiderio, la complessità della psiche umana. C’è un po’ di tutto questo in Icaro, tutta l’esperienza della vita mescolata, descritta per accenni, suggerita. Nessuno di noi ha coscienza del proprio futuro. Di sicuro, però, ognuno di noi sa che questo viaggio è destinato a finire, poiché non siamo dèi – ma uomini, e l’uomo è per definizione un essere mortale. La chiave di lettura dell’opera dovrebbe essere il tanto citato carpe diem. Afferra la tua vita, consumala fino in fondo, siine padrone. Decidine i percorsi, la velocità del viaggio, le soste. Ovviamente, sempre consapevoli del fatto che al viaggio è affiancato il caso, che esiste l’imprevisto.

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C’è una forza che soffia e spinge tra le pagine come nel volo verso il sole, eppure l’idea di caduta, centrale a tutto il lavoro, è negativa. Il testo è come una torsione di due forze opposte: come hai lavorato per trasmetterle con tanta intensità?
Hai centrato il punto. La vita non è forse fatta di contrasti e contrapposizioni? Nasciamo, ma sappiamo di dover morire. Basta questa sola definizione a creare un tilt, un impatto fortissimo, un corto circuito emozionale. Ho lavorato ad Icaro deve cadere dapprima in maniera abbastanza inconsapevole. Sono partita dalle illustrazioni, in particolare dalla stesura di queste figurine capovolte a testa in giù, di questi Icaro nell’atto del cadere. Credo che, ad un certo punto, sia entrata in gioco in maniera automatica una riflessione più profonda sul senso della vita che mi ha portato ad analizzare alcune questioni, ad indagare i concetti di cui parlavamo prima. Il testo è nato anch’esso in maniera piuttosto spontanea. Dalla primissima stesura alla definitiva il lavoro di pulizia è stato massiccio. Ho alleggerito il testo di ogni eccesso lezioso o romanticheggiante. Così come le figure del volume spiccano su uno sfondo bianco, netto, anche le frasi che si accostano alle immagini sono schiette e senza fronzoli, necessarie, come il messaggio che portano.Detto questo, non trovo che la caduta sia da intendersi in maniera assolutamente negativa. E’, più che altro, imprescindibile. Ci sono alcuni passaggi che ho inserito perché comunicassero un’intenzione positiva, di presa di possesso della propria esperienza del mondo. Ho giocato parecchio ed intenzionalmente su questo contrasto: da una parte c’è l’ineluttabile, la paura, la stasi ma dall’altro c’è l’uomo in tutta la sua forza, che può decidere di vivere l’amore per il suo verso buono o anche semplicemente di abbandonarsi a quel che la vita ha in serbo per lui. L’uomo ‘supereroe’, che non ha paura di cadere e sperimentare – quello che non guarda l’orologio per scelta, e vive la vita senza chiedersi quando cesserà d’essere. Anche i passaggi più negativi sono stati inseriti proprio al fine di creare lo scatto intimo opposto allo sconforto… Non vogliono certo essere la culla dell’annichilimento.

Sfogliando il libro ci si lascia in effetti trascinare e cadere non è più pertuttoiltempoun’imposizione ma un salto, uno slancio verso i momenti più alti della vita, quando il cuore batte come un fremito d’ali. Esiste però un contrasto nettissimo tra il tratto ingenuo e innocente delle figure umane, dalle quali si sprigionano lacrime, gocce, piccoli oggetti cadenti, e il nero cieco sempre steso con un tratto pesante e caotico.

La nascita delle mie opere, da quelle su carta alle tele, è sempre data a partire dalla macchia. Seguo, si potrebbe dire, quasi un processo di autoanalisi. Osservo le macchie di colore, le studio, analizzo fino ad avere una ‘visione’ dell’immagine finita. A quel punto la tiro fuori da foglio con il colore, la definisco, sottolineo e lascio che emerga. Tutto comincia a partire dall’acqua e dal colore nero che si scioglie in essa e il tratto è ripetuto e ripetuto, quasi fosse un automatismo. Il colore arriva in seconda battuta, e ha la funzione di definire, sottolineare, evidenziare un concetto. Il colore è la paura, il Tempo, la scintilla di desiderio che si innesca. E’ una guida, un marcatore di senso.

Partendo dal presupposto che i 500 esemplari di Icaro non sono un catalogo, ma parte dell’opera, cadi più comodamente tra le pagine di una tiratura limitata o nelle sale delle gallerie che hanno ospitato la mostra?
Trovo che le due esperienze siano collegate, ed ugualmente elettrizzanti. Quando Andrea Benei e Silvana Ghersetti della Grrrz Comic Art Books mi hanno chiesto se volevo tentare l’avventura libro è stato emozionante. E il lavoro di quasi un anno che c’è stato, di studio, progettazione, messa in opera, ha completamente stravolto il mio fare quotidiano, il mio modo di realizzare arte. Avevo cominciato da qualche mese ad utilizzare il mezzo carta, ma senza avere uno scopo preciso. Loro hanno fornito un senso ad una ricerca che non sapeva bene quale direzione prendere. Sono ormai due anni che carta, matite, acqua e pastelli sono diventati il mio medium di comunicazione. Questo libro rappresenta per me un secondo inizio, il primo passo verso una strada tutta da percorrere. Il libro è stato presentato per la prima volta in occasione di Bilbolbul 2014 a Bologna, presso lo spazio espositivo Adiacenze, e da lì è partito questo tour, per ora a metà circa del suo percorso, che ha toccato e toccherà diverse città italiane. Ad ogni tappa, un allestimento dell’unicum originale di IDC, delle stampe serigrafate ad esso dedicate e degli originali documentativi del lavoro fatto durante la stesura del volume. E siccome non ci piace cadere comodamente, abbiamo aggiunto un’installazione site specific ispirata alle tavole del libro creata ad hoc per ogni spazio che ospita la mostra. Queste sono occasioni uniche non solo per far conoscere il volume, ma per comprenderne sempre più a fondo il messaggio, il contenuto e la presa che esso ha sul pubblico. IDC non è un libro dal respiro semplice, eppure ogni volta mi sorprende il potere che ha nel conquistare il lettore e legarlo a sé. E’ una sensazione a me inedita, che rende questa esperienza assolutamente impagabile.

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Intervista a Valentina Restivo

quest’intervista è apparsa nel catalogo della personale dell’artista alla Biblioteca Fabbricotti di Livorno nel maggio 2015

 

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Valentina Restivo, una domanda sul titolo della tua personale Parler seul et rire à mes rêves…citazione da Antonin Artaud: tu parli da sola, ridi dei tuoi sogni, o entrambe le cose?

Il pazzo che parla da solo e ride dei suoi sogni non è lontano dal mio approccio all’arte. Spesso mi capita di pensare di parlare con la mia pittura, intessere dialoghi con i miei soggetti, mentre cammino verso casa di ritorno dal mio studio. L’altra parola chiave è solitudine: il tempo che si passa da soli è il tempo della creazione. Anche dei sogni e della solitudine, mi piace ridere.

Nella tua mostra presenti 70 illustrazioni in bianco e nero su  Fight Club  di Fincher. Come hai scelto questo film?

Dopo aver illustrato le scene di Le 120 giornate di Sodoma di Pasolini, Ultimo tango a Parigi di Bertolucci, avevo voglia di avvicinarmi a un  testo contemporaneo. Inoltre è un film  che ho visto quando avevo 17 anni e che in un certo senso mi ha rivoluzionato la vita: sento ancora molto vicino il tema del doppio, che forse ha acceso in me l’interesse verso il film, e l’approccio all’amore come quel sentimento che tutto può, anche di fronte alla distruzione.

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Qual è stato invece il criterio per la scelta dei venti  autori protagonisti dei ritratti?

Si tratta di autori le cui parole hanno stravolto il mio modo di vedere, quindi io sono legata a loro, ma loro sono completamente slegati l’uno dall’altro. Sono i ritratti di scrittori e pensatori che mi hanno fatto viaggiare. In un certo senso li riporto sulla tela per il bisogno di “rileggerli” come si trattasse di persone care che ho voglia di rivedere o di riascoltare, perché sono loro le parole che parlano nella mia solitudine.

 

Il cinema e la letteratura sono centrali in tutta la tua produzione.

Sono i  miei grandi amori, e la mia pittura è arte che torna all’arte: dopo essere stata vista e letta, l’arte viene digerita e ridipinta.

Domini il bianco e nero e ti abbandoni al colore con la stessa disinvoltura.

Per le sequenze cinematografiche è sempre stato naturale e spontaneo utilizzare il bianco e nero,  che ho usato a lungo,  di solito su di un fondo a  toni caldi, anche quando si trattava di fare un ritratto. Poi per i venti ritratti della mostra la scelta dei colori è stata quasi istintiva: ho voluto giocare soprattutto sul forte contrasto tra il soggetto e lo sfondo, e tra uso del pastello e sfondi metallici. Mi piace la morbidezza del pastello a contrasto con lo sfondo metallico. Ci sono colori che ritornano e l’uso più o meno reiterato fa parte della mia visione del soggetto e varia da figura a figura.

Una visione di grande respiro che vanta riferimenti culturali eterogenei e una grande libertà espressiva. Un lavoro per niente scontato in una città come la nostra, che di cultura ne produce moltissima , ma che pecca spesso di provincialismo.

Quella su Livorno è una domanda frequente… e io spesso ho pensato che il  “non aver niente”  a Livorno, che poi è un’affermazione discutibile, l’ho sempre visto come un limite e una forza allo stesso tempo. Limite in quanto talvolta risentiamo dei pochi stimoli culturali,  e li cerchiamo o in una rosa di persone care, o in esperienze di viaggio e di evasione ( io adoro viaggiare). Ma la modesta offerta della città ha anche i suoi vantaggi perché ti consente di chiuderti nel tuo spazio, a fare, a leggere, a guardare, ascoltare… tutte esperienze che per chi ama visceralmente la solitudine risultano impagabili. Credo che lascerei Livorno, penso proprio di sì, ma cambiando luogo il più spesso possibile perché credo che chi ama “fare” ha diritto a quella solitudine che si è guadagnato negli anni e che lo fa andare avanti nonostante tutto, anche senza pensare al successo.

Majorana. Il mistero del fisico scomparso

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questo articolo è apparso su ALIAS, il manifesto, il 9.05.2015

Avvolta da un mistero intricato quanto le sue scoperte scientifiche, la figura di Ettore Majorana riaffiora periodicamente nei telegiornali. Ma aldilà delle congetture, delle supposizioni, di quel brusio sommesso ma costante relativo alla scomparsa dello scienziato e ai motivi che la determinarono, resta l’assenza. Un vuoto su cui Francesca Riccioni (già sceneggiatrice di Enigma, la strana vita di Alan Turing, accanto a Tuono Pettinato) e Silvia Rocchi (autrice delle biografie a fumetti su Alda Merini e Tiziano Terzani) costruiscono il grafic novel Il segreto di Majorana, pubblicato da Rizzoli Lizard e presentato al Comicon di Napoli, dove incontriamo le autrici.
La procura di Roma nel febbraio di quest’anno ha dichiarato chiusa un’inchiesta che conferma che Majorana visse in Venezuela negli anni ’50, ma l’idea del fumetto sullo scienziato nasce prima. Come prende vita questo progetto?
Risponde Francesca Riccioni: «Mi è capitato di voler scomparire e mi sono resa conto che la mia vita virtuale, account sui social e tutto il resto, non mi avrebbe permesso né di scomparire, né di rifarmi un’identità. Scontrandomi con questa circostanza, ho capito che se davvero avessi preso quella decisione, sarei rimasta in realtà a galleggiare in un limbo, una situazione di presenza in assenza. Più di recente, mi è successo che un amico mi raccontasse di aver assistito a una conferenza in Germania, dove il fisico Leo Kouwenhoven presentava il suo rilevamento del fermione di Majorana nelle nanotecnologie della materia condensata, tra l’altro conquistandosi la copertina di Science di maggio del 2012. Ho messo insieme questi elementi ed ho pensato che Majorana fosse un buonissimo candidato per la mia seconda biografia. Tutto questo accadeva in contemporanea con una bella mostra di Silvia Rocchi, che avevo visto e mi era piaciuta molto. Majorana me lo sono subito immaginato disegnato da lei».
Il fisico catanese scomparve nel 1938 tra Napoli e Catania, entrando per sempre nel mito e contravvenendo così anche al diktat del Duce che annotò il fascicolo d’inchiesta con un laconico e assordante «si deve trovare». Lungi dal voler alimentare le teorie su questa sparizione, l’intento delle autrici è piuttosto quello di raccontarne la persona nella dimensione di scienziato. Con un espediente narrativo di cornice che racchiude la storia centrale, tutto l’impianto si articola su un doppio binario: Leo è lo scienziato che presenta il lavoro di Majorana in un’università californiana settantacinque anni dopo la sua scomparsa. La conferenza riprodotta nelle tavole è tanto reale quanto le scoperte del fisico, e quanto le teorie di Majorana, che vengono proposte in forma semplificata e accessibile al lettore. Nel fumetto la parte scientifica occupa uno spazio rilavante nel libro. Come avete lavorato per proporre contenuti così densi?
Francesca Riccioni: «Avendo scelto di occuparci di Majorana e non dei motivi o dell’inchiesta sulla sua scomparsa, il libro parla sicuramente di scienza. Abbiamo approcciato la materia raccontandola in un contesto contemporaneo, tenendo sempre ben presenti i concetti di materia e di antimateria, che quando si incontrano creano un vuoto, una metafora di quello lasciato da Majorana. Mi sono proposta a Silvia con una storia che è intrisa di scienza, ma di una scienza astratta. Mi interessava il suo tratto proprio perché riesce a rendere questo senso di rarefazione che avvolge la vicenda».
Silvia Rocchi: «Credo che l’immagine imponga una fruizione più lenta, e quindi un’attenzione più posata. Quando Francesca mi spiegava i concetti fisici, mi faceva notare che la fisica degli anni ’30 era in effetti molto più semplice rispetto a quella odierna, ma Majorana si occupava di fisica astratta, quindi i suoi studi sono in un certo senso attualissimi. Il primo spunto è venuto quando Francesca mi ha mostrato le camere a nebbia- molto grafiche- e ho accettato la sfida di renderle sulla pagina, risolvendo con l’applicazione di fili di cotone sulla lastra. In fondo nessuno ha mai visto le particelle, quindi disegnarle è un paradosso interessante».
Diremmo quasi che si tratta di un fumetto a tecnica mista. Attingi alle recenti esperienze di stampa autoprodotta?
Silvia Rocchi: «Sì, oltre alle consuete matite colorate e acrilici ho introdotto, com’era già successo nel libro su Tiziano Terzani, degli inserti con tecniche a stampa diverse. Lì si trattava di xilografia, incisione su legno; in questo caso invece ho utilizzato la monotipia calcografica, una stampa realizzata con un inchiostro oleoso e molto denso, che ingrandita può creare delle texture molto adatte a rendere l’idea di elementi astratti».
Francesca Riccioni: «A ben vedere utilizziamo questa tecnica nelle pagine dove si parla di scienza: sono pagine di raccordo sospese nel tempo della storia, integrate in entrambi i livelli della narrazione, ma che ne creano al tempo stesso un terzo, quello del discorso scientifico di Majorana valido allora come oggi: lavoriamo ancora oggi sulle sue teorie, per come sono state scritte».
Nelle pagine narrative invece l’organizzazione del testo alterna la splash page (tavola a pagina intera) a tavole divise in due grandi vignette orizzontali. Due modi per presentare la vicenda per immagini, di nuovo il gioco del doppio?
Silvia Rocchi: «È una scelta di linearità. Ci serviva uno schema che desse spazio al mio disegno: ho un tratto caotico, immediato, difficile da incasellare nella classica griglia a otto».
L’organizzazione rigorosa della narrazione lascia comunque spazio a delle incursioni «esterne» come quando nella storia di cornice c’è un momento di dissenso nel ricordo dei moti di Seattle nel 2000, relativi alla libera ricerca scientifica e alla lotta contro i brevetti. Un attrito che si riflette-di nuovo il gioco del doppio narrativo- nella storia di allora, quando le ricerche e la personalità di Ettore Majorana si scontravano con un pensiero scientifico dominante, tanto da non farlo sentire mai del tutto integrato al gruppo dei ragazzi di Via Panisperna o da complicare i rapporti con lo stesso Enrico Fermi, che dirigeva l’Istituto di Fisica a Roma.
Francesca Riccioni: «Fermi e Majorana erano due persone diverse. Fermi era un fisico di mestiere, la ricerca era il suo lavoro, un’attività che poi sfociò in quel compromesso tristemente noto che è la vicenda di Los Alamos. Majorana era un aristocratico catanese ed un genio, a detta dello stesso Fermi, e aveva una visione e un approccio diversissimo alla scienza e alla ricerca, quasi estetico. Abbiamo cercato di rendere questa sua meraviglia di fronte alla natura siciliana, nel momento in cui dopo il periodo romano, torna a Catania. Crediamo che avesse o sentisse una sorta di comprensione totale della natura».
Lo stesso Leonardo Sciascia, nel suo bel libro La scomparsa di Majorana, insiste molto su questa duplice tensione: l’emozione e la febbrilità della scoperta che animavano il giovane scienziato, contro il suo sottrarsi alla divulgazione pubblica, tanto da arrivare ad eludere la paternità di certe teorie e in qualche modo a non «concedersi» quasi mai in forma scritta o attraverso l’insegnamento.

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C’è un unico grande ritratto di Ettore nel libro, a parte quello di copertina, nel quale inserite una lapidaria battuta «io non so nulla, io non ho mai saputo nulla». Si tratta di una nota caratteriale relativa alla riservatezza che Sciascia definisce propria di «tutti i siciliani ‘buoni’, dei siciliani migliori» o di quella proverbiale modestia dietro la quale si asserragliava per non concedersi allo scientific system?
Francesca Riccioni: «Libera interpretazione, ma la frase è nostra. Nella pagina è riassunto il «segreto» cui fa riferimento il titolo, il mistero sulle ricerche svolte, dovuto al fatto che Majorana pubblicava pochissimo. Alcuni dicono che non fosse mai sicuro di quello che scriveva e trovava, ma vero è anche che le teorie sono vere appena pubblicate e che poi possono essere confutate: fa parte del gioco della scienza. Un gioco al quale Majorana non si piega».
Un libro che mostra una scelta autoriale coraggiosa che avvalla le infinite possibilità del fumetto nella comunicazione scientifico-divulgativa. A che pubblico avete pensato mentre scrivevate?
Francesca Riccioni: «Quando si scrive di scienza si pensa sempre alla comunità scientifica e al rigore di ciò che si scrive: tutti sono attenti a come viene utilizzata la propria produzione quando rivolta a un pubblico non specializzato, ma in generale è un libro rivolto a tutti».
Silvia Rocchi: «È molto semplice. Io di fisica non so niente, così quando Francesca mi spiegava le teorie di Majorana mi chiedevo se il lettore le avrebbe capite; man a mano che definivamo la struttura della storia però, mi sono accorta che sorgevamo similitudini interessanti come quella dello specchio. Attraverso la metafora abbiamo cercato un’apertura estetica che potesse trasmettere o quantomeno alludere ad un contenuto scientifico».
Il Mistero di Majorana si gusta come un atteso frutto editoriale che regala un sapore nuovo alla narrazione illustrata della scienza e della storia della scienza. Riccioni e Rocchi lo offrono al lettore con una spinta di autodeterminazione lodevole, la prima con una scrittura che rende accessibili i concetti fisici investigati dallo studioso catanese, e la seconda affidandosi al suo tratto impulsivo e denso, alla varietà delle sue matite e alla freschezza delle composizioni (che a questo Comicon 2015 gli sono valse il premio Nuove Strade, assegnato dal Centro del fumetto Andrea Pazienza). Un approccio complementare ad uno stesso argomento, fondato sull’assioma del rispetto per la figura e per la famiglia del genio catanese. Il risultato è una storia nella quale si respira quel soffio eterno delle brezze del sud, quell’aria sospesa delle terre che furono testimoni dell’ultimo anno della vita (conosciuta) del genio catanese. La domanda che soggiace nel silenzio della scomparsa è quella impertinente, approfondita in chiave tecnologica nel divertente epilogo di Tiziano Bonini, che le autrici rivolgono al lettore nello spazio bianco: e voi, avete mai pensato di sparire?

Beowulf e il senso del graphic novel_ Intervista a Santiago García e David Rub

questo articolo è stato pubblicato su fumettologica.it, il giorno 8.05.2015

Incontro Santiago García in un pomeriggio primaverile, immersi nell’atmosfera febbrile della Plaça de Espanya di Barcellona. Dalla hall dell’hotel si scorgono densi gruppi di persone che si muovono verso il padiglione 2 della Fira dove si sta svolgendo il 33esimo Salón del Cómic.

García è traduttore, critico e sceneggiatore, tra l’altro del bel libro Las Meninas illustrato da Javier Olivares e candidato al premio per Miglior Fumetto Spagnolo (e che risulterà vincitore).

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Stiamo aspettando David Rubín, con il quale ha da poco firmato Beowulf (Tunué) e approfittiamo per scambiare quattro parole sullo stato del graphic novel in Spagna.

García: Il dibattito sulla novela grafica è vivo, sì… anche in Italia. Mi ricordo di essere stato qualche anno fa a Udine, dove l’università organizzava dei seminari a tema cinema e fumetto. Mi sento speranzoso, sono convinto che il genere troverà sempre più pubblico, sia perché la mia esperienza è positiva – per esempio con l’editore Astiberri siamo già alla seconda ristampa di Las meninas – sia perché vedo che c’è un grande fermento di autori che si cimentano. Non voglio sembrare trionfalista, visto che la situazione economica non è meravigliosa, ma stiamo facendo cose nuove e con una certa costanza.

È importante ricordare che l’apparizione in Spagna delle prime “novelas gráficas” coincide con il momento più duro della crisi: Arrugas (Rughe Tunué) di Paco Roca e  María y yo (Maria e io, Comma22) di Miguel Gallardo, che sono considerate come le prime, sono entrambe del 2007, e nell’estate del 2008 il nostro paese stava già affondando. È molto difficile che un prodotto culturale prosperi nel momento in cui ci si deve piegare a rigide condizioni economiche: probabilmente se non fosse arrivata la crisi la scena sarebbe ancora più favorevole ma, nonostante questo, la novela gráfica gode in questo momento di ottima salute.

Santiago, nel tuo percorso di autore hai pubblicato nel 2010 un saggio che porta proprio questo titolo, La novela gráfica (Astiberri). Cosa ti ha spinto a scrivere un libro teorico?

García: È stato un tentativo di capire il termine romanzo grafico, che all’inizio in Spagna ha trovato molta resistenza. Si era diffidenti verso questa definizione, forse perché sembrava sciocco chiamare con un altro nome qualcosa che in fondo è comunque un fumetto. Ma poi mi sono detto che i nomi devono corrispondere a dei concetti. Fino agli anni ’70, per esempio, in Spagna non si parlava di cómic (prestito dall’inglese che si usa normalmente oggi in spagnolo per riferirsi al fumetto in generale, Ndr) ma di tebeos. Poi con l’arrivo del fumetto adulto e l’apertura del paese all’esterno, iniziammo a chiamarlo cómic. In questo senso le persone che hanno tante remore oggi a usare il termine novela gráfica non capiscono che, già in quegli anni,  a un cambio di termine era corrisposto un cambio di contenuti: fino alla morte di Franco in Spagna si erano prodotti principalmente fumetti infantili. Solo dopo arrivò il fumetto adulto (Milo Manara fu tra i primi ad essere tradotti) e iniziammo a chiamare il fumetto cómic. Con il termine novela gráfica è successo lo stesso.

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Quando arriva, Rubín – noto in Italia per i suoi  Dove nessuno può arrivareLa sala da tè  dell’orso maltese e L’eroe, tutti editi da Tunué – si inserisce con il suo proverbiale vigore nella conversazione.

Rubín: Non solo sono uno strenuo difensore del genere, ma credo addirittura che si possa parlare di un movimento artistico. Non credo che per graphic novel ci si possa riferire solo al concetto storico, quello definito da Will Eisner, credo proprio che esista un prima e dopo. Stiamo cercando di ottenere la stessa cosa per cui Art Spiegelman a suo tempo combatté tanto affinché Maus venisse collocato in libreria e non solo in quelle di fumetto: un tentativo di guadagnare pubblico. Romanzo grafico non è in assoluto un termine peggiorativo, piuttosto è sinonimo di apertura di porte e di menti, una forma in cui tutte le tematiche diventano valide. Ora per esempio possiamo fare un romanzo come Beowulf, che è un libro di avventura, e sapere che la casa editrice e il pubblico lo considerano come un fumetto d’autore, cosa che prima era impensabile.

García: Prima dell’avvento del romanzo grafico, solo gli appassionati leggevano fumetti, comprandoli in librerie specializzate… quindi il genere e i suoi cultori erano relegati fuori dal resto del mondo della lettura. Una delle cose che vuole fare il romanzo grafico è esattamente arrivare a un altro pubblico, un pubblico generale, e questo sta succedendo. Il lettore tipico di fumetti prima dell’avvento del romanzo grafico era un maschio che non aveva mai smesso di leggere dall’infanzia; non si contemplavano le lettrici donne, per esempio, e in generale il pubblico era costituito solo da persone già interessate a quel linguaggio. Ora ci sono lettori che si avvicinano al fumetto a 25 o 30 anni e questo prima non succedeva: chi da adulto leggeva fumetti era colui che aveva iniziato da bambino e non aveva mai smesso di farlo.

Rubín: …quando Santiago ha intitolato il suo saggio La novela gráfica ha rischiato la gogna! I fan del fumetto hanno pensato che fosse un termine che screditava il fumetto, nel tentativo inutile di dargli un prestigio che loro già gli riconoscevano!

García: C’è anche una questione di gusto: ai lettori di fumetto tradizionale probabilmente dà fastidio che il romanzo grafico abbia un prestigio che i fumetti classici, che a loro piacevano tanto, non hanno mai avuto.

Rubín: Anni fa a Lucca Comics un noto illustratore italiano che lavora per Bonelli mi ha confessato che disegna e narra i suoi Dylan Dog o Martin Mystère in un modo prestabilito, quindi senza godere molto del proprio lavoro, ma che trova il suo appagamento di autore  scrivendo graphic novel per case editrici indipendenti, disegnando in un modo completamente diverso e trovando solo così la sua “calligrafia”. Il primo lavoro per riempire il frigorifero e il secondo per scoprirsi e godere della propria arte. Noi cerchiamo di situarci in mezzo a questa divisione. Io da cinque o sei anni vivo di fumetto e faccio fumetti che mi piacciono, quelli che vorrei fare: non diventerò ricco, ma non è quello che cerco. Mi basta essere felice con quello che faccio.

 

Parliamo del vostro lavoro insieme. È uscito in Italia il 2 di Aprile Beowulf, un graphic novel basato sul poema omonimo. Nella postfazione all’edizione italiana si racconta della lunga genesi del lavoro. Com’è nato il progetto?

García: Ho scoperto Beowulf da piccolo in un libro di racconti infantili e mi è rimasto così impresso che ho sempre voluto farne un fumetto. Nel 2002 lo proposi a Javier Olivares (l’illustratore con cui ho firmato Las Meninas) e ci mettemmo al lavoro, però, dopo una ventina di pagine disegnate,  il progetto si arenò. Decidemmo quindi di accantonarlo per poter eventualmente lavorare su altre idee. Così scrissi un post sul mio blog annunciando che non avremmo finito il fumetto. E dopo poco tempo ricevetti una chiamata di David.

Rubín: Stavo terminando L’eroe quando lessi il post e mi arrabbiai molto perché conosco bene Santiago e Javier e come lettore avevo molta voglia di leggere questo libro. Il personaggio mi aveva sempre affascinato ed ero stato anche un po’ invidioso di sapere che ne stavano per fare un fumetto, visto che si trattava di una di quelle storie che avrei voluto fare io, quando mi fossi sentito pronto come autore. Questi sue sentimenti forse mi portarono a scrivere, quasi senza pensare a Santiago, dicendogli che se poteva aspettarmi, lo avrei disegnato io.

Ad una condizione, ovvero che quello fosse il mio Beowulf e il suo. Santiago infatti riscrisse la sceneggiatura secondo il lavoro portato avanti insieme. Per me è stato davvero come chiudere un cerchio, visto che Javier Olivares a livello grafico è uno dei miei totem, come un faro nella tempesta quando ancora stavo cercando il mio stile. In questo modo ho potuto in certo senso ringraziarlo; ho raccolto un progetto che lui aveva abbandonato per rifarlo a modo mio, trasformandolo secondo il mio sguardo, dimostrandogli anche in questo modo, tutto quello che avevo imparato da lui.

García: Io dalla mia utilizzai il tempo che rimaneva a David prima di terminare L’eroe per riscrivere una sceneggiatura a braccetto con lui: ci scambiammo numerose mail e opinioni, fino a convergere in un punto comune. David ha moltissima energia, anche come persona, come vedi, e io davvero avevo bisogno di un “treno” come lui per dare nuova linfa al progetto. E quest’energia febbrile, questa specie di spinta si è riversata anche sul resto del mio lavoro.

Ed è effettivamente un’energia che si respira nel ritmo incalzante del libro, che si legge di un fiato. Elemento da non sottovalutare, trattandosi di un poema di oltre 3000  versi. Come hai lavorato per l’adattamento?

García: Sono partito dal testo trovato nel libro di racconti infantili, che secondo me contiene tutta l’essenza della storia. Quindi l’ispirazione principale è venuta da lì e poi abbiamo fatto il nostro Beowulf.

Rubín: Per me Beowulf è sempre stato come quelle statue etrusche di cui si conserva solo un piede, e viene il capogiro a pensare quanto grandi fossero… Nella sua semplicità la storia ha una forza sconfinata. Siamo stati d’accordo subito su questo: se l’opera è arrivata ai nostri giorni con questa forza, non servirà a niente aggiungere o togliere. Come una pietra preziosa: meno la lavori, maggiore è il suo valore, possiamo sempre mettere il nostro ego di artisti nel modo, nella forma di raccontarla.

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Il testo visivo però è molto articolato grazie all’uso di piccole vignette inserite nella tavola che introducono dettagli o elementi esterni al quadro principale e che rendono la contemporaneità degli eventi. Le avevi già usate ne L’eroe, e adesso divengono una cifra del racconto.

Rubín: Da un lato c’è molta gente che crede che la sceneggiatura corrisponda al concetto di testo o a quello di trama. Molte delle idee e dei dettagli che dici si trovano nella sceneggiatura di Santiago, altre vengono da me. Credo che con questo lavoro abbiamo raggiunto quella dinamica che riconosco come lavoro in squadra: due mondi e due individualità che si fondono in una nuova, in una visione che ha una sua consistenza e coerenza e che funziona da sola, senza che il lettore capisca dove finisce il lavoro dello sceneggiatore e dove inizia quello dell’illustratore. La cosa importante è come si racconta una storia, la scelta e l’uso del linguaggio. Ho lavorato molto nel cinema e forse è per quello che sono tanto affezionato al montaggio, che cerco di sfruttare al massimo anche nel fumetto. C’è da aggiungere che il montaggio, l’uso linee cinetiche e delle onomatopee sono tutte risorse molto tipiche del fumetto, alle quali, forse anche a causa dell’invasività del cinema, il lettore si è disabituato.

Mi è successo che la gente si stupisse perché ho fatto uso di molte onomatopee ne L’eroe, quando si tratta di un dispositivo tipico del fumetto; inoltre molti hanno definito “cinematografico” l’uso del colore inBeowulf. Niente di più lontano dalle mie intenzioni. Né il disegno, né la scrittura, niente in questo lavoro voleva imitare il cinema. Tantomeno ho cercato il naturalismo con il colore, che uso in modo da generare sensazioni nel lettore, soprattutto in Beowulf dove abbiamo voluto sorprenderlo con un pugno allo stomaco, trattandosi di una storia cruenta, molto diretta e senza mezze tinte, con personaggi semplici ma profondamente autentici, essenza pura di ciò che rappresentano. Beowulf, Grendel, la madre, fino ad arrivare al Drago, sono archetipi che abbiamo visto in un milione di opere, ma noi abbiamo voluto raffigurarlo nella sua essenza: Grendel non è un mostro malvagio, è il male puro e per questo ho provato a rappresentarlo come il male astratto.

Per farti un esempio, recentemente ho dovuto rispondere alle questioni che ha sollevato la sequenza dell’eiaculazione di Grendel su Bewoulf. Il mostro è eccitato alla vista dell’eroe e non sa se mangiarlo o possederlo. Spesso mi hanno chiesto il perché di questa sequenza… è chiaro che non capiremo mai il mostro: è il male puro, non è regolato da un’etica umana, perché il suo è il pensiero astratto di un essere archetipico.

Bocche, fauci, grinfie… tutti simboli di possesso e assunzione. Ma la bocca è come un leitmotiv nel fumetto, ci sono addirittura delle inquadrature da dentro le fauci del mostro.

García: È il simbolo della voracità, ce l’hanno tutti gli animali, è il posto da dove viviamo, respirando e mangiando, e anche il luogo dove finisce la vita delle prede. Il mostro che mi faceva più paura da piccolo era lo squalo del film di Spielberg, che nella versione originale si chiama Jaws, ovvero le fauci, la rappresentazione finale dell’orrore, quello di essere divorati.

Rubín: La bocca è la sintesi di molte funzioni, anche contraddittorie, che il nostro corpo animale espleta, è l’organo da cui passa la vita, ma può infiggere la morte.

Più che un’opera circolare, il vostro Bewoulf sembra sfondare la storia, e le ultime tavole aprono una finestra intertestuale tra la narrazione e la genesi dell’opera. In questo senso, terminando il fumetto avete ucciso anche voi il vostro mostro?

García: Ogni volta che ne uccidi uno, ti aspetta un mostro più grande, e questa è la lezione di Beowulf. Perché in fondo il mostro che vince su Beowulf non è il drago, ma l’età, il tempo. Difatti con Beowulf termina l’epoca dei mostri e degli eroi e Wiglaf, il suo successore, è fondamentalmente un politico, colui che apre l’epoca del pensiero e della ragione. La fine del mito è avvenuta, perché Beowulf è altrettanto mostro di quelli che ha ucciso. In questo senso l’opera, come dici, non è circolare, ma lascia spazio a un’altra dimensione.

Rubín: Ho sempre interpretato l’opera come un canto alla sopravvivenza del poema come genere. Non potrebbe essere altrimenti, visto che si è tramandata oralmente per secoli fino a trovare la sua stesura scritta. Noi ne abbiamo fatto un fumetto e la lettura è quello che dà senso all’opera, è il lettore stesso che chiude il cerchio dando la sua particolare interpretazione. E ci teniamo a dire che il finale ce l’eravamo immaginati molto simile anche senza consultarci.

Tutte le ossessioni, le trasgressioni e le paure di Victor

 

 

questo articolo è apparso su ALIAS, il manifesto, del 1.05.2015

Che succede quando a firmare un romanzo illustrato sono da un lato un prolifico e pluripremiato scrittore di racconti infantili, Davide Calì, e dall’altro, un illustratore famoso della scena underground italiana, quale Squaz? Quasi sicuramente, trattandosi di autori esperti di infanzia e trasgressione, il libro si centrerà su quel momento speciale, quella terra di confine che si calpesta quando si è sospesi tra la fanciullezza e l’età adulta: anni di confusione e delizia, di grandi dubbi, ma anche di profonda disobbedienza e turbamento. “Tutte le ossessioni di Victor” (Diábolo Edizioni, 2015), uscito a marzo nelle librerie italiane, spagnole e francesi (il marchio editoriale è italo-spagnolo) è la storia di un uomo ormai adulto che, dopo l’ultima storia d’amore naufragata, imprende un cammino di autoanalisi, affrontando la materia sentimentale in un excursus cronologico di cottarelle, fidanzatine e amori più o meno giovanili. Soggiogato dalle sue fobie, che sembrano affliggere in parte anche il resto della sua esistenza, Victor si apre al lettore, cercando il bandolo della sua patologica inettitudine.

Così, con un discorso accurato e meticoloso, che tradisce gran parte dell’ossessività di Victor, Davide Calì traccia un personaggio schietto ma complesso, alle prese con una miriade di oggetti feticcio e di ricordi sgradevoli, messi al servizio adesso dell’autoterapia. Non manca di certo una buona dose di ironia, sempre però asciutta e mai auto compiaciuta: Victor non si lamenta né dispera; si limita a narrare con ritmo ed efficacia le sue disavventure. Il resto dell’immaginario, in un’ambientazione che ricorda l’Italia di provincia degli anni ’80, lo costruisce la versatile mano dell’illustratore tarantino: una cornice narrativa disegnata a china con la tecnica del tratteggio, in bicromia, che da al discorso di Victor un tono meditativo, a mo’ di introduzione e di bilancio finale. Nel corpo centrale del racconto troviamo i veri e propri episodi, organizzati in ossessioni- criceti, peli, racchette da tennis, ma anche crêpes e pizza- affrontati sulla pagina con disegni dai colori pieni e vivaci. Squaz fa sfoggio di una totale libertà nell’organizzazione del testo, abolendo griglie o strutture troppo rigide a favore della spalsh page , ma incorniciando importanti dettagli dentro a piccole vignette: una flessibilità che si estende anche ai baloon, che quando non vengono direttamente eliminati, hanno forme diverse e irregolari. Il risultato è una grande varietà testuale: nelle inquadrature, per esempio, la narrazione passa con disinvoltura dai primi piani alla figura intera, si sofferma su dettagli (come mani e piedi) anche completamente slegati dalla figura, senza però mai venire meno all’espressività del protagonista, che sa strapparci un sorriso tanto sono assurde, ma in fondo comuni, le sue idiosincrasie.

Così interpreta Squaz il personaggio nato dalla fantasia di Davide Calì, che è un bambino desideroso di scoprire i segreti della sessualità e di rapportarsi al mondo femminile, e che, senza mai capirlo fino in fondo, colleziona una lunga serie di infatuazioni ognuna legata a un preciso ricordo (più o meno) traumatico; un giovane che al tempo stesso non nega la sua parte responsabilità nel fallimento dei propri ideali e che progressivamente diviene più audace e più risoluto nelle sue decisioni. Verso la fine del romanzo, dopo aver affrontato l’esame di maturità, perseguitato dalla diceria che circolino in giro miracolose pillole per la memoria e scosso dal loro effetto, il protagonista sembra trovare la sua strada nella nona arte. Qui, come spesso accade con le storie in prima persona che affondano, purché con leggerezza, nella psicologia di un personaggio, fa capolino il materiale autobiografico: dalla fascinazione per il fumetto collezionato dal padre, all’emozione per il primo colloquio con l’editore al quale si arriva sempre con un’idea precisa e se ne esce con tutt’altra. Episodi che non mancano nella carriera di un buon fumettista e che gli autori sanno rendere perfettamente sulla pagina. I numerosi personaggi che accompagnano Victor in questo viaggio a ritroso nella formazione della sua personalità gli brindano l’opportunità di farsi conoscere dal lettore: vediamo Victor in relazione con le ragazzine e poi con le donne, sì, ma anche con i propri genitori, perlopiù ignari dei tumulti che scuotono il cuore e il corpo del figlio, e con amici e parenti. Non possiamo fare a meno di affezionarci al giovincello spavaldo e imbranato: ne abbiamo conosciuti molti come lui, o forse noi stessi siamo ancora un po’ così, inclini a continui ed estenuanti percorsi di autoanalisi, ma ossessionati da certi ricordi che non possiamo fare a meno di collegare ad attuali sconfitte. Un libro che, senza la pretesa di dare risposte alle crisi esistenziali, né di fornire spiegazioni, sorprenderà e divertirà quella parte di noi che si è rifiutata di crescere.