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Intervista a Valentina Restivo

quest’intervista è apparsa nel catalogo della personale dell’artista alla Biblioteca Fabbricotti di Livorno nel maggio 2015

 

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Valentina Restivo, una domanda sul titolo della tua personale Parler seul et rire à mes rêves…citazione da Antonin Artaud: tu parli da sola, ridi dei tuoi sogni, o entrambe le cose?

Il pazzo che parla da solo e ride dei suoi sogni non è lontano dal mio approccio all’arte. Spesso mi capita di pensare di parlare con la mia pittura, intessere dialoghi con i miei soggetti, mentre cammino verso casa di ritorno dal mio studio. L’altra parola chiave è solitudine: il tempo che si passa da soli è il tempo della creazione. Anche dei sogni e della solitudine, mi piace ridere.

Nella tua mostra presenti 70 illustrazioni in bianco e nero su  Fight Club  di Fincher. Come hai scelto questo film?

Dopo aver illustrato le scene di Le 120 giornate di Sodoma di Pasolini, Ultimo tango a Parigi di Bertolucci, avevo voglia di avvicinarmi a un  testo contemporaneo. Inoltre è un film  che ho visto quando avevo 17 anni e che in un certo senso mi ha rivoluzionato la vita: sento ancora molto vicino il tema del doppio, che forse ha acceso in me l’interesse verso il film, e l’approccio all’amore come quel sentimento che tutto può, anche di fronte alla distruzione.

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Julio Cortázar

Qual è stato invece il criterio per la scelta dei venti  autori protagonisti dei ritratti?

Si tratta di autori le cui parole hanno stravolto il mio modo di vedere, quindi io sono legata a loro, ma loro sono completamente slegati l’uno dall’altro. Sono i ritratti di scrittori e pensatori che mi hanno fatto viaggiare. In un certo senso li riporto sulla tela per il bisogno di “rileggerli” come si trattasse di persone care che ho voglia di rivedere o di riascoltare, perché sono loro le parole che parlano nella mia solitudine.

 

Il cinema e la letteratura sono centrali in tutta la tua produzione.

Sono i  miei grandi amori, e la mia pittura è arte che torna all’arte: dopo essere stata vista e letta, l’arte viene digerita e ridipinta.

Domini il bianco e nero e ti abbandoni al colore con la stessa disinvoltura.

Per le sequenze cinematografiche è sempre stato naturale e spontaneo utilizzare il bianco e nero,  che ho usato a lungo,  di solito su di un fondo a  toni caldi, anche quando si trattava di fare un ritratto. Poi per i venti ritratti della mostra la scelta dei colori è stata quasi istintiva: ho voluto giocare soprattutto sul forte contrasto tra il soggetto e lo sfondo, e tra uso del pastello e sfondi metallici. Mi piace la morbidezza del pastello a contrasto con lo sfondo metallico. Ci sono colori che ritornano e l’uso più o meno reiterato fa parte della mia visione del soggetto e varia da figura a figura.

Una visione di grande respiro che vanta riferimenti culturali eterogenei e una grande libertà espressiva. Un lavoro per niente scontato in una città come la nostra, che di cultura ne produce moltissima , ma che pecca spesso di provincialismo.

Quella su Livorno è una domanda frequente… e io spesso ho pensato che il  “non aver niente”  a Livorno, che poi è un’affermazione discutibile, l’ho sempre visto come un limite e una forza allo stesso tempo. Limite in quanto talvolta risentiamo dei pochi stimoli culturali,  e li cerchiamo o in una rosa di persone care, o in esperienze di viaggio e di evasione ( io adoro viaggiare). Ma la modesta offerta della città ha anche i suoi vantaggi perché ti consente di chiuderti nel tuo spazio, a fare, a leggere, a guardare, ascoltare… tutte esperienze che per chi ama visceralmente la solitudine risultano impagabili. Credo che lascerei Livorno, penso proprio di sì, ma cambiando luogo il più spesso possibile perché credo che chi ama “fare” ha diritto a quella solitudine che si è guadagnato negli anni e che lo fa andare avanti nonostante tutto, anche senza pensare al successo.