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Intervista a Isabella Staino

quest’intervista è stata realizzata in occasione del vernissage della mostra “Il mistero dei gesti semplici” nel dicembre 2015

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Durante il vernissage della mostra “Il mistero dei gesti semplici” in cima alle scale della biblioteca, come uscite da un quadro, due giovani figuranti attendono i visitatori sorseggiando caffè; ad accogliere il pubblico anche la cantante Niki Mazziotta, e altri due personaggi, L’Uomo ombra e la piccola Isabella, tutti truccati da Dalia Colli.

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foto di Valentina Restivo

A fianco di queste presenze suggestive, sono moltissime le opere esposte.

«Dipingo molto- spiega l’artista- e, visto lo spazio incredibilmente grande che si addice particolarmente al mio lavoro anche nei dettagli, come nella pavimentazione e nelle grandi aperture delle stanze sullo spazio centrale, non potevo lasciarmi sfuggire l’occasione di portare quadri di grandissime dimensioni ».

Lontano dalla maestosità del luogo, il titolo della mostra rimanda però a dimensioni più raccolte del fare e dell’agire, al gesto semplice e al mistero che questo racchiude.

«L’arte figurativa in generale contiene e svela il mistero agli occhi dello spettatore perché è un linguaggio completo. Un gesto semplice, come togliersi un guanto, si svela agli occhi dello spettatore; la pittura, nello specifico, permette di tirarne fuori l’essenza e di bloccare quel momento. Inoltre, a livello formale, la pittura figurativa permette a chi osserva di riconoscere ciò che sta accadendo sulla tela».

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Si tratta di un’immediatezza che non corrisponde alla meticolosità del gesto creativo dal quale nascono queste opere.

«Certo esiste anche questo aspetto; difendo la pittura come gesto tradizionale e antico, come rivendicazione di ciò che si può fare, prendendosi il giusto tempo, con i colori e i pennelli, le cere e l’olio di lino. Tecniche semplici che riescono a rappresentare dettagli come un tatuaggio o la trama di una stoffa  a grandi spazi rarefatti, dalla linea sottilissima alla macchia diffusa».

 

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Di nuovo il sogno è alla base dell’universo dipinto da Isabella Staino, è il filtro e l’ambientazione di quanto accade sulla tela.

«Il sogno è per me un canale diretto con la pittura e quasi tutti i miei quadri rappresentano scene sognate, che in seguito possono evolversi e articolarsi sulla tela, dove entrano anche elementi di realtà, che io però riconosco più tardi». Il sogno non solo distorce le prospettive, ma affianca alle figure umane anche elementi meno realistici «Vengo dalla pittura astratta- continua l’artista-anche se da anni dipingo molto e passo molto tempo sul quadro, la base dei miei lavori è spesso astratta; un soggetto diventa sempre più figurativo, ma la componente fantastica rimane costante e ha la stessa trama gestuale e funzionale di quella realistica».  Anche la scelta degli spazi pittorici rispetta in certo senso questo dualismo: nei quadri di Staino, sia nelle piccole che nelle grandi dimensioni, ci sono spazi interni e delimitati come stanze, ed altri aperti, esterni, completamente indefiniti. Spessissimo i due comunicano attraverso varchi, aperture, finestre, in un movimento tra costante tra dimensioni spaziali comunicanti, proprio come succede nei sogni. Così passeggiamo tra i sogni della pittrice travolti la varietà nella scelta dei colori e delle luci, vero marchio della sua pittura, che come garantisce «a differenza della composizione, della forma e del disegno, più studiati, sono assolutamente spontanei».

In definitiva, la bambina che pensa per colori, come l’aveva già apostrofata Antonio Tabucchi nel suo Isabella e l’ombra, (il libro omonimo pubblicato da Vittoria-Iguazù editora arricchito con le immagini delle sue opere), è cresciuta, ma non è affatto cambiata.

 

 

Intervista a Valentina Restivo

quest’intervista è apparsa nel catalogo della personale dell’artista alla Biblioteca Fabbricotti di Livorno nel maggio 2015

 

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Valentina Restivo, una domanda sul titolo della tua personale Parler seul et rire à mes rêves…citazione da Antonin Artaud: tu parli da sola, ridi dei tuoi sogni, o entrambe le cose?

Il pazzo che parla da solo e ride dei suoi sogni non è lontano dal mio approccio all’arte. Spesso mi capita di pensare di parlare con la mia pittura, intessere dialoghi con i miei soggetti, mentre cammino verso casa di ritorno dal mio studio. L’altra parola chiave è solitudine: il tempo che si passa da soli è il tempo della creazione. Anche dei sogni e della solitudine, mi piace ridere.

Nella tua mostra presenti 70 illustrazioni in bianco e nero su  Fight Club  di Fincher. Come hai scelto questo film?

Dopo aver illustrato le scene di Le 120 giornate di Sodoma di Pasolini, Ultimo tango a Parigi di Bertolucci, avevo voglia di avvicinarmi a un  testo contemporaneo. Inoltre è un film  che ho visto quando avevo 17 anni e che in un certo senso mi ha rivoluzionato la vita: sento ancora molto vicino il tema del doppio, che forse ha acceso in me l’interesse verso il film, e l’approccio all’amore come quel sentimento che tutto può, anche di fronte alla distruzione.

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Julio Cortázar

Qual è stato invece il criterio per la scelta dei venti  autori protagonisti dei ritratti?

Si tratta di autori le cui parole hanno stravolto il mio modo di vedere, quindi io sono legata a loro, ma loro sono completamente slegati l’uno dall’altro. Sono i ritratti di scrittori e pensatori che mi hanno fatto viaggiare. In un certo senso li riporto sulla tela per il bisogno di “rileggerli” come si trattasse di persone care che ho voglia di rivedere o di riascoltare, perché sono loro le parole che parlano nella mia solitudine.

 

Il cinema e la letteratura sono centrali in tutta la tua produzione.

Sono i  miei grandi amori, e la mia pittura è arte che torna all’arte: dopo essere stata vista e letta, l’arte viene digerita e ridipinta.

Domini il bianco e nero e ti abbandoni al colore con la stessa disinvoltura.

Per le sequenze cinematografiche è sempre stato naturale e spontaneo utilizzare il bianco e nero,  che ho usato a lungo,  di solito su di un fondo a  toni caldi, anche quando si trattava di fare un ritratto. Poi per i venti ritratti della mostra la scelta dei colori è stata quasi istintiva: ho voluto giocare soprattutto sul forte contrasto tra il soggetto e lo sfondo, e tra uso del pastello e sfondi metallici. Mi piace la morbidezza del pastello a contrasto con lo sfondo metallico. Ci sono colori che ritornano e l’uso più o meno reiterato fa parte della mia visione del soggetto e varia da figura a figura.

Una visione di grande respiro che vanta riferimenti culturali eterogenei e una grande libertà espressiva. Un lavoro per niente scontato in una città come la nostra, che di cultura ne produce moltissima , ma che pecca spesso di provincialismo.

Quella su Livorno è una domanda frequente… e io spesso ho pensato che il  “non aver niente”  a Livorno, che poi è un’affermazione discutibile, l’ho sempre visto come un limite e una forza allo stesso tempo. Limite in quanto talvolta risentiamo dei pochi stimoli culturali,  e li cerchiamo o in una rosa di persone care, o in esperienze di viaggio e di evasione ( io adoro viaggiare). Ma la modesta offerta della città ha anche i suoi vantaggi perché ti consente di chiuderti nel tuo spazio, a fare, a leggere, a guardare, ascoltare… tutte esperienze che per chi ama visceralmente la solitudine risultano impagabili. Credo che lascerei Livorno, penso proprio di sì, ma cambiando luogo il più spesso possibile perché credo che chi ama “fare” ha diritto a quella solitudine che si è guadagnato negli anni e che lo fa andare avanti nonostante tutto, anche senza pensare al successo.